di Álvaro Rodríguez Marín, pubblicato su Diagonal del 10 novembre 2011 (e quindi prima delle elezioni).
Tra la realtà ed il desiderio, stiamo costruendo le nostre vite. Non c’è via di uscita. L’angolo definito da queste due linee sarà la misura della nostra potenza – o della nostra frustrazione. In questo senso il 15M è pura vita.
Il 15 maggio si apre uno spazio imprevedibile, impossibile nel blocco perfettamente immobile della nostra realtà sociale, del nostro immaginario del possibile e del dicibile. Nelle piazze l’abbiamo percepito come uno spazio pieno di potenza: la mappa del possibile si era dispiegata.
Una apertura nel linguaggio sociale e della identificazione. Non siamo identificabili e non ci identifichiamo. Non siamo comunisti, anarchici, giovani, disoccupati, rossi o sovversivi. Siamo individualità unite in un rifiuto comune e in una costruzione comune. Siamo un no ed un si. Siamo il comune di fatto: condividendo, collaborando, convivendo nella piazza. Il linguaggio del potere esige identificazione, necessita sapere, dire cosa siamo, chi siamo, di che colore è la nostra bandiera. C’è bisogno di un nome affinché la logica implacabile della definizione -ovvero sia, del limite- ci fagociti immediatamente. Pero è soprattutto la logica del telegiornale che ci disinnesca e ci neutralizza con una sola parola: sovversivi, violenti, hippies, black bloc, squatters, punkabbestia… Per nominarci collettivamente abbiamo evitato parole connotate, stratificazioni di significati, cariche di simboli che le incanalano lungo strade strette – o del tutto chiuse: proletari, operai, classe… Abbiamo invece accettato parole prive di carica: indignazione, rispetto, 99%… Parole che scivolano via come il sapone.
Una breccia nel virtuale. Una conquista della terra, dall’immaginario al fisico, dalla rete alla strada, dalle parole ai corpi. Una scarica elettrica nel corpo sociale zombie, narcotizzato, ipnotizzato dagli schermi multipli e dall’isolamento sociale.
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