Nel giro di una manciata di giorni – dal 1 settembre al 10 settembre – abbiamo attraversato il mediterraneo orientale, spostandoci lungo la linea porosa, che linea alla fine non è, della “frontiera” est dell’Unione Europea. Una frontiera porosa perché attraversata dai flussi di migranti che da anni usano questa porta per entrare in Europa, provenienti da mezza Africa e Asia.
Patrasso – 1
Poche ore di bus, e arriviamo all’ultima tappa del nostro viaggio, Patrasso, dal quale partirà il traghetto che ci porterà ad Ancona, alcuni giorni dopo. Assieme ad Igoumeniza, Patrasso è uno dei principali porti di collegamento con l’Italia, e per questo motivo sono entrambi i punti principali nei quali i flussi migratori si concentrano, in attesa di un colpo di fortuna per attraversare il mare.
Alla stazione dei bus ci accoglie M., che è una attivista di Kinisi, un piccolo gruppo che si occupa del sostegno dei migranti a Patrasso. Il nome del gruppo, in greco, significa letteralmente movimento. M. ci porta in un bar tradizionale, dove ci servono caffè (turco o greco?), della crema di latte, ed i dolci di sfoglia, pistacchi e caramello tipici del medio-oriente, i baklava.
Mentre addentiamo i dolci, M. ci spiega la situazione di Patrasso, ed il ruolo che il movimento svolge. I migranti sono arrivati a Patrasso circa quindici, venti anni fa. Per primi arrivarono i profughi delle guerre del golfo. La maggior parte di loro afgani. In seguito sono arrivati da tutto l’arco dell’africa del nord (Tunisia, Marocco, Sudan, Turchi e Palestinesi). Arrivano a Patrasso da est, e aspettano nelle vicinanze del porto l’occasione. L’occasione per un clandestino a Patrasso è un tir che si ferma ad un semaforo. A quel punto saltano dentro, si nascondono tra la merce, a volte sotto il trasporto, tra le ruote. E sperano di non essere scoperti, di poter arrivare con questo particolare “passaggio” su una nave diretta in Italia.
Questa dinamica rende molto diversa la situazione locale (sia dei migranti che delle organizzazioni di sostegno e solidarietà) da quella di Atene. I migranti non sono a Patrasso per restare, sono a Patrasso per partire. Si concentrano in alcune aree, dove costruiscono nulla di più di una baraccopoli, sperando di poter partire il giorno dopo. Anche se restano anni. Il governo di Patrasso (che -per inciso- è una delle roccaforti della sinistra greca), non può o non vuole fare molto. Non ci sono centri di accoglienza. Non ci sono programmi governativi. Non c’è, paradossalmente, neanche un centro di detenzione, come quelli di cui ci hanno raccontato ad Atene. Il governo greco non sa cosa farsene di queste migliaia di clandestini. Probabilmente spera che riescano nel loro tentativo, e raggiungano l’Italia, diventando un problema di qualcun altro.
A Patrasso, fino a qualche mese fa, c’erano due grossi campi. Uno, situato in una vecchia stazione dei treni abbandonata, verso sud, dove si concentrano i provenienti dall’area del Maghreb. Un’altro, a pochi passi dal porto, dove si ritrovano principalmente Afgani. Questo secondo campo, mesi fa, è stato distrutto dalla polizia. Da allora gli Afgani vivono dispersi tra un campo di ulivi, vicino alla statale, dove i tir si fermano ai semafori. Hanno paura, rimangono dispersi per essere meno visibili, pensano che quello che è successo al loro campo sia stata una reazione alle manifestazioni precedenti, a cui avevano partecipato, organizzate assieme a Kinisi, per rivendicare i loro diritti più elementari.
I piatti sono vuoti già da tempo, e M. si scusa, ma deve lasciarci per andare a lavoro. Ci lascia i contatti di un’avvocato che collabora con loro, e ci organizza due visite ai campi, accompagnati da altri membri del movimento.
Seduti ad un bar in una assolata piazza del centro -Patrasso è anche un centro universitario- parliamo con l’avvocato che collabora con Kinisi. Lui -che non fa parte direttamente di Kinisi, e ci pare di intuire anche per una divergenza di opinioni- è comunque l’unico legale ad occuparsi della faccenda. Di conseguenza, non può seguire i casi individuali. Produce dei rapporti regolari, che invia ad un’agenzia delle Nazioni Unite, sulle condizioni dei migranti nei campi di Patrasso e Igoumeniza. Il suo ruolo non è molto diverso da quello di un osservatore. Per quanto svolga un compito in qualche modo perfino banale, è l’unico che svolge questo tipo di lavoro nelle due città. I suoi rapporti sono indirizzati direttamente alle Nazioni Unite, e se arrivano alle istituzioni locali e nazionali, arrivano solo dall’alto, ritornando indietro attraverso uno strano percorso istituzionale, per cui l’ONU è l’unica istituzione che ha strumenti esplorativi e conoscitivi per osservare una situazione locale.
Il giorno dopo, non abbiamo appuntamenti nella mattina, così ne approfittiamo per fare un giro al porto. Percorriamo il lungo viale che costeggia il mare, e tra noi e le banchine ci sono reti, grate e filo spinato. Il porto è protetto come una grande caserma militare. Superiamo il terminal per i passeggeri, con le file di turisti pronti ad imbarcarsi per l’Italia, e ci allontaniamo verso la parte che sembra riservata ai tir con i container delle merci. A sinistra abbiamo il porto, a destra questo viale, che si restringe a due sole corsie, per poi addirittura ad una in senso alternato, a causa di alcuni lavori. Effettivamente ci sono un sacco di tir in fila, fermi al semaforo.
Mentre ci chiediamo come facciano i migranti a provare ad entrare nei tir, sentiamo delle grida provenienti da dentro il porto, alla nostra sinistra. Vediamo, oltre la ringhiera, dei tir fermi sotto una tettoia, con il rimorchio aperto, vicino ad un casottino che assomiglia a quelli dei caselli autostradali. Vediamo delle persone correre, qualcuno grida qualcosa in una lingua che non capiamo. Finalmente, da un cancello poco avanti a noi, escono due ragazzi, a breve distanza uno dall’altro. Sono afgani, hanno dei fazzoletti colorati al collo ed una bottiglia d’acqua da mezzo litro in mano. La bottiglia d’acqua serve prima per berla, durante il viaggio in nave che può durare anche 20 ore o più, e quando è vuota per farci pipì dentro. Non hanno altro con loro. Appena usciti in strada, smettono di correre, si affiancano uno all’altro e si muovono a passo spedito, ma non di corsa. Vorrebbero non dare nell’occhio, ma non siamo sicuri che ci riescano. Comunque, nessuno pare inseguirli, né fare caso a loro.
Ogni tanto si guardano indietro per vedere se qualcuno li segue, e parlottano tra di loro. Vanno nella nostra stessa direzione, anche se non volessimo li seguiremmo comunque. Dopo un paio di centinaia di metri, raccolgono un loro amico, anche lui con la sua bottiglia d’acqua, che li aspettava sotto un albero lungo la strada. Assieme, continuano ad allontanarsi dal porto, sempre a passo svelto. Dopo un po’ ci stanchiamo di seguirli, siamo già un bel po’ lontani dal centro. Abbiamo anche superato il vecchio campo degli afgani, che ora non è altro che uno spiazzo abbandonato e lasciato alle erbacce.
Torniamo indietro, con la strana sensazione lasciataci dall’incontro: ci sentiamo un po’ fortunati ed un po’ spiazzati, ed in qualche modo delusi, perché tutto sommato -anche se non sapevamo che erano su quel tir- facevamo il tifo per i ragazzi afgani.