Nel giro di una manciata di giorni – dal 1 settembre al 10 settembre – abbiamo attraversato il mediterraneo orientale, spostandoci lungo la linea porosa, che linea alla fine non è, della “frontiera” est dell’Unione Europea. Una frontiera porosa perché attraversata dai flussi di migranti che da anni usano questa porta per entrare in Europa, provenienti da mezza Africa e Asia.
Patrasso – 2
Nel pomeriggio, J., un’altra ragazza di Kinisi, ci accompagna dopo pranzo al campo dei magrebini. Appena entriamo nella vecchia stazione dei treni, distante una decina di minuti a piedi dal corso dello shopping e delle vetrine di moda, il contrasto è scottante. Dalle pulite e regolari vie da città di mare, ci ritroviamo in un luogo che è perfino meno di un campo profughi. I binari sono ancora lì, qualche vagone rimane, ma la maggior parte, dove i migranti avevano in precedenza sistemato le loro abitazioni di fortuna, sono stati portati via mesi fa dalla compagnia dei treni. Il campo della vecchia stazione dei treni di Patrasso altro non è che uno spiazzo all’aperto, una piccola tettoia, un albero, un paio di vagoni che probabilmente non hanno spostato perché troppo danneggiati per farlo.
J. saluta alcune persone, e subito qualcuno le dice che le devono parlare. J. ci fa segno di seguirla. I migranti ci accompagnano dietro un vagone, e ci raccontano che la mattina stessa la polizia ha fatto incursione nel campo. Molti migranti di giorno abbandonano il campo per spostarsi nei dintorni del porto, ma ugualmente c’erano alcune persone presenti. Dicono che 30 persone sono state portate via, i numeri non sono chiari, 28, 34, non si sa. J. gli chiede di recuperare i nomi delle persone. Entrambi i nomi, precisa – quello vero e quello falso, che i migranti usano quando non si fidano della persona a cui si rivolgono. J. chiede quante persone -tunisini o marocchini come quelli che hanno fermato- si trovino ora a Patrasso, quante persone dormano in quel campo. Gli rispondono duemila, forse tremila. Di queste duemila persone, 30 sono state portate via, e se non si riesce a recuperare informazioni sulla loro identità, sarà molto difficile scoprire dove si trovano e qual’è la loro situazione giuridica.
J. ci lascia nel campo, e iniziamo a fare domande un po’ alla rinfusa. La risposta dei migranti, nonostante il fatto che non ci conoscano, e nonostante che poche ore prima ci sia stato un raid della polizia, è di una apertura che ci lascia stupiti. Hanno voglia di raccontare la loro storia, non sono timidi e non sono diffidenti.
C’è chi viene dalla Tunisia, chi dal Marocco, chi dall’Egitto, chi dalla Somalia. “Vengo dalla Palestina” risponde uno. Qualcuno vicino lo riprende, ridendo: “non sono poliziotti!”. “Ah, allora dalla Tunisia”. Ridono. Ci chiedono se siamo poliziotti, e gli assicuriamo di no. L’avvocato, il giorno precedente, ci aveva raccontato che alcuni migranti fingono di venire da un paese diverso dal loro, per chiedere lo status di rifugiato politico. Dicono di venire dalla Palestina o dal Sudan. Del resto, quando sei clandestino, senza documenti, in prima battuta è la tua parola che conta. Questo però è spesso controproducente, ci raccontava l’avvocato che collabora con Kinisi. Perché poi, in caso di fermo, l’identità dichiarata va verificata, la polizia greca deve contattare il governo del paese di origine e ottenere i dati anagrafici. Questa operazione, spesso standard e burocratica, può richiedere mesi nei casi dove la macchina burocratica del secondo paese non funziona rapidamente – magari perché è una zona di guerra. Ed in questi mesi, durante il controllo, si viene detenuti, per un periodo potenzialmente più lungo di quanto sarebbe necessario. Curiosamente, raccontano, da qualche tempo l’Autorità Nazionale Palestinese risponde a questo tipo di richieste nel giro di 24-48 ore, rispetto ai mesi che ci volevano una volta.
Noi facciamo domande, senza un particolare ordine, scoprendo ogni volta qualcosa di nuovo e qualcosa che ci suscita altre domande. La maggior parte è arrivata in Grecia passando dalla Turchia. Tutti conoscono i nomi delle isole e dei campi di detenzione sulla frontiera orientale Greca. Da li si sono spostati ad Atene, via mare o da nord, via terra. Da Atene a Patrasso è un breve viaggio, e a Patrasso qualcuno è lì da anni.
Ma perché fanno questo viaggio, apparentemente assurdo, circumnavigando il Mediterraneo per passare dalla Tunisia all’Italia? Perché il braccio di mare tra Tunisia e Italia è troppo controllato, ci sono gli accordi con la Libia, è difficile e -in buona sostanza- costa caro. 10.000€ bisogna pagare ai trafficanti per fare quel viaggio. Per quanto lunga sia la strada, la porta della Grecia è la più vicina e la più economica, anche per chi viene dal Mediterraneo Occidentale.
Perché Patrasso e non Igoumeniza? Perché a Igoumeniza c’è la mafia irachena, chiedono un “pizzo” per ogni tentativo di partenza, che vada bene o che vada male. Il racket della clandestinità.
Che poi il problema, ci dice qualcun altro, non sono i soldi. Non vedono come un grave problema il dover pagare per proseguire il loro viaggio. Il problema è trovare qualcuno di cui fidarsi, qualcuno che non ti truffi, che non si tenga i soldi, o che dica di poter fare cose che in realtà non può fare, e finire in un centro di detenzione, oltre che truffati.
Già che siamo finiti a parlare di soldi, gli chiediamo i “prezzi” dei trafficanti. Un passaggio “sicuro” (ma appunto, sicuro non è mai, dato che non ci si può fidare del trafficante) costa 1.000€. Un documento falso, comprato ad Atene, costa 50€ per una carta di identità, 100€ per un passaporto. Ci mostrano i loro documenti falsi, comprati vicino a Omonia Square ad Atene. Un posto dove non sono a loro agio, e dal quale molti sono scappati poche ore dopo il loro arrivo, il tempo necessario per rendersi conto della situazione, comprare i documenti falsi e prendere un bus per Patrasso. Sono documenti italiani, svizzeri, qualcuno -curiosamente- siriano. Ci chiedono di confrontarli con i nostri, per vedere se sono “buoni” o meno.
Ma cosa li spinge in questo viaggio? La risposta, per tutti, fondamentalmente, è la speranza di una migliore condizione economica. Non tutti vivevano in povertà, prima di partire, anzi. Molti erano “classe media” nei loro paesi di origine. Quasi tutti hanno studiato. C’è un perito industriale, un ingegnere aeronautico, un informatico. Se potessero, tornerebbero nel loro paese, adesso. Pensavano che la Grecia fosse diversa, ci dicono che non è un paese dell’Unione Europea come gli altri. Qui in Grecia non c’è lavoro neanche per i greci, dicono. Ora però non possono tornare, per fare il viaggio si sono indebitati così tanto, che tornare indietro per loro non è più possibile. Sono rimasti incastrati in questo limbo che è Patrasso e le incomprensibili regole dell’UE.
Ma dov’è che vogliono andare? Molti hanno già amici o parenti in Europa, un fratello, un cugino, una sorella. Vogliono raggiungerli, sanno già dove andare, una volta passata la frontiera. Qualcuno in Italia, qualcuno in Germania, in Inghilterra. In Germania -che è ancora lontana per loro- le condizioni di vita sono molto migliori per i migranti. Quelli che vogliono andare in Italia, dicono che in Italia i migranti vengono trattati meglio che in Grecia. Che la polizia è meno violenta. Che gli italiani sono più aperti verso gli arabi ed i musulmani. Perché sono più abituati alla loro presenza, li conoscono da più tempo. L’Italia un posto accogliente per gli arabi? Così pensano loro, e non so se è per scarsa conoscenza loro, o per mancanza di prospettiva, che a noi l’affermazione sembra così sorprendente.
Mentre siamo sommersi da tutte queste informazioni, ci hanno fatto accomodare nel loro campo. Siamo seduti all’ombra, ci offrono acqua da bere, un caffè solubile – è buono? chiedo diffidente. Mi assicurano che l’acqua è pulita e potabile. Mi fido. Ogni tanto qualcuno saluta e va via, qualcun altro arriva, si ricomincia con le presentazioni, e le domande di base – da dove vieni, dove vai. Finiamo a discutere di velo, di Islam e a giocare a scacchi, finché non è ora di andar via.
Salutiamo, dicendo che domani saremmo partiti. Traghetto, ci chiedono? Si, alle 11. Quello della Superfast. Conoscono tutti gli orari. Allora ci vediamo sul traghetto – scherziamo. Inshallah, qualcuno risponde. Qualcuno ci chiede cosa faremo tornati in Italia, di raccontare quello che abbiamo visto. Un ragazzo, giovane, pensa che la gente sappia quello che succede a Patrasso, e che non voglia fare nulla. Non sappiamo cosa rispondergli, un po’ ha ragione, un po’ no. Noi proveremo a raccontarlo, gli assicuriamo. Ci stringe la mano, e ci saluta.
Ci incontriamo nella solita piazza con un ragazzo, sempre parte di Kinisi, che ci porterà in macchina a visitare dove ora si trovano gli afgani. Da quando la polizia ha distrutto il campo più grande, vicino al porto, vivono dispersi tra gli ulivi. Usciamo poco fuori città, percorrendo il viale lungo il porto, dove il giorno prima avevamo visto i due ragazzi afgani. Parcheggiamo in una strada di campagna, e ci incamminiamo in questo bosco di ulivi. Sotto un albero, incontriamo cinque ragazzi, tutti afgani, alcuni molto giovani, che chiacchierano con un signore anziano. Il nostro accompagnatore di Kinisi ci spiega che il signore vive qua vicino, e gli porta cibo, vestiti, e quello che riesce a recuperare per aiutarli. Gli afgani mantengono un profilo molto discreto, e non è raro che i loro “vicini” non siano indisposti nei loro confronti. Del resto, non hanno costruito neanche un vero e proprio campo. Attorno a noi vediamo solo alberi, nessun altra persona è visibile. Quando ci hanno detto che sono “dispersi” tra gli alberi, lo dicevano sul serio. Hanno un piccolo bivacco, qualche telo, panni appesi, un posto dove fanno il fuoco. Praticamente, vivono all’aperto, riparati solo dalle fronde dell’ulivo.
Ci presentiamo, ed aiutati dalla traduzione di uno dei ragazzi afgani, l’unico che capisce l’inglese, ci facciamo raccontare la loro storia. Loro sono hazara, una delle etnie che vivono in Afganistan, a maggioranza Sciita, e anche una delle più perseguitate dai Talebani. Per questo motivo – e ovviamente le guerra iniziata nel 2001 – moltissimi giovani afgani hanno abbandonato il paese, seguendo un percorso che attraverso il Pakistan, l’Iran e la Turchia li ha portati infine in Grecia. Al contrario di chi abbiamo incontrato nell’altro campo, provenienti dal nord-africa, gli afgani non migrano per motivi economici, ma per motivi strettamente “politici”, spesso di sopravvivenza personale. Quasi tutti hanno le famiglie decimate dalle uccisioni da parte dei Talebani. Non hanno lo stesso livello di istruzione, ed il loro viaggio è probabilmente molto più duro e pericoloso.
I ragazzi con cui parliamo hanno dai 17 ai 23 anni. Il più giovane è arrivato da pochi giorni, qualcun altro è qui da due anni. Sono stati a Quetta, la città in Pakistan con la più grande concentrazione di hazara, poi in Iran, lavorando come manovali. Attraversare il confine tra Iran e la Turchia è pericoloso, ci raccontano. Oltre al rischio di morire per il freddo, sulle montagne, è la zona dove si trovano i Kurdi. Se ti trovano le bande di Kurdi mentre provi a passare il confine – raccontano – o paghi una “tassa di passaggio”, oppure ti tagliano due dita, o un orecchio. Tutto sommato la loro vita attuale non deve sembrargli troppo pericolosa.
Gli hazara possono chiedere l’asilo politico. Ma hanno gli stessi problemi di cui ci raccontavano ad Atene: se lo fanno, non ottengono nessun sostegno, e non possono più lasciare la Grecia. Legalmente, si intende. Il ragazzo che conosce l’inglese (lo ha studiato a scuola, dice, in Afganistan), ci mostra la sua carta di soggiorno in quanto rifugiato, di colore rosso. Ci spiega il volontario di Kinisi, che ora non rilasciano più queste carte, dato che stanno cambiando le regole per fare domanda. Il ragazzo afgano dice che lui comunque tenterà di andare in Italia. Come clandestino, anche se è rifugiato in Grecia. Di buono c’è che, dal momento che ora anche in Grecia è necessario un documento di identità per comprare una SIM per cellulari, lui ha potuto comprarla non solo per se, ma anche per i suoi amici.
Passano le loro giornate cercando di salire sui tir, anche 10 volte al giorno. Aspettano che si fermino al semaforo, magari con il sole che batte nello specchietto retrovisore dell’autista, e poi aprono le porte e si nascondono nella merce. A volte, quando la merce è frutta, rischiano di danneggiarla, schiacciandola. Gli autisti dei tir possono avere problemi legali se viene trovato un clandestino nel loro carico. Dato che alcuni si fanno pagare per trasportarli, è difficile per chi non era consenziente dimostrare la sua innocenza. La polizia è dura anche con loro, per cui molti tendono ad essere aggressivi verso i clandestini che cercano di salire sui tir.
I ragazzi ci raccontano che, oltre a quelli che prendono dei soldi, ci sono quelli che lasciano passare, dicendo che nel caso li trovassero al porto, avrebbero ovviamente negato di averli visti. Altri ancora, si arrabbiano, e quando trovano i ragazzi nei tir, li picchiano. Il nostro interprete afgano dice che lui capisce gli autisti dei tir, pensano che abbiano ragione, e che se ogni tanto gli arriva qualche botta, tutto sommato se la merita. Ha imparato a dire “scusa, mi dispiace” in greco. Non può fare altrimenti, dice, ma capisce il loro punto di vista.
È uno strano gioco di ruoli, quello che avviene tra polizia, autisti e clandestini. In qualche modo per tutti c’è una discrepanza tra quello che vorrebbero realmente fare, e quello che sono giocoforza costretti a fare. Il governo e la polizia greca richiamati dalle autorità internazionali (l’Italia lamenta lo scarso controllo delle frontiere da parte della Grecia), gli autisti dei tir messi a rischio dai controlli della polizia, ed i migranti che si districano in questa rete di controlli, chiedendo scusa quando vengono “beccati”.
In tutto ciò, c’è anche spazio per chi, come alcuni poliziotti giovani, vengono nei campi a rompere le precarie tende dei migranti, o come il signore greco che viene qui quasi tutti i giorni a portare aiuti ai ragazzi. In un teatrino drammatico che prosegue, con piccole mutazioni, da anni.
Il sole sta calando, il nostro accompagnatore deve tornare in città. Ci congediamo, e anche con loro scherziamo, speriamo di rivederci domani sul traghetto. Attorno a noi, piccoli gruppi di persone, afgani, arrivano e spariscono tra gli alberi.
Il giorno seguente prendiamo il traghetto. Curiosamente, in nessun momento, dal check-in all’imbarco, ci viene chiesto di mostrare un documento. Saliamo in coperta per osservare le minuziose operazioni di ispezione, con la polizia che apre uno per uno i tir e controlla l’interno, prima di farli salire a bordo. Stavolta noi non abbiamo “fortuna” e non vediamo nessun clandestino venire scoperto, o forse sarebbe meglio dire che qualcun altro ha avuto più fortuna dell’altro giorno. Dei ragazzi afgani, dalla strada, si sbracciano come a fare segno di salutare. Ci guardiamo attorno e non capiamo a chi si rivolgano. Dopo un po’ un poliziotto si avvicina e li fa allontanare. La nave parte, col suo carico di turisti, studenti e famiglie. Forse nella stiva non c’è nascosto nessuno. O forse oggi è un giorno fortunato per un giovane afgano, o forse tunisino. In ogni caso, benvenuto in Italia.
«il vento viene, il vento se ne va, lungo la frontiera,
la fame viene, l’uomo se ne va, senza altra ragione,
la morte viene, la fortuna se ne va, lungo la frontiera.»
Manu Chao, El viento.